
“Grand Hotel” – Paolo Ventura
Piccole storie che narrano di vite senza tempo, non necessariamente legate a contesti definiti ma che abitano in un mondo immaginato dove c’è spazio per il passato, il presente e il futuro.
Quella che Paolo Ventura plasma tra le sue mani è una fotografia della messa in scena. Per gli inglesi staged photography, cioè fotografia allestita: una forma espressiva che si propone di scardinare la formalità descrittiva della comune pratica fotografica. Di fatto, Ventura ci chiede di essere seguito in un viaggio tra le molte possibilità creative per rintracciare l’emersione di sentimenti misteriosi.
Lo stesso Ventura racconta: «All’inizio cercavo delle immagini come le cerca un fotografo andando in giro per strada. Poi, dato che non riuscivo a trovare quello che cercavo, le ho prese all’interno, costruendole come si fa nel cinema».
Così facendo, dal suo repertorio teatrale nascono sequenze infinite e inarrestabili, racconti inediti e sorprendenti dei quali l’esecuzione materiale dello scatto celebra il continuo mutamento.
Ventura cuce insieme sogni, ombre e fantasmi del suo percorso terreno per mettere in fila le tracce di un ricordo latente, proiettandone i risultati all’interno di quadro di stampo onirico.
Approcciarsi alle immagini di Paolo Ventura significa prescindere da ogni aderenza logica. A un primo impatto il nostro cervello percepisce la scena che abbiamo di fronte come un istante autentico che Ventura si è personalmente trovato a documentare. In realtà, i suoi fotogrammi definiscono una vera ossessione per la menzogna.
Vale la pena ricordare che molti degli elementi inseriti nelle composizioni di Ventura appartengono a una dimensione concreta, mentre, giusto per citare qualche esempio, i soldati coperti dalle loro minute divise, oppure le coinvolgenti stratificazioni urbane, nonché le dinamiche relazionali dei protagonisti che popolano questi fotogrammi sono figli e figlie dell’alter-ego camaleontico dello stesso fotografo.
Persino gli sfondi, spesso posizionati a disegnare i lineamenti di una grande metropoli vengono alterati grazie alla declinazione di uno sguardo semplice e solo apparentemente infantile.
Quello di Ventura non è solo un percorso prodotto con attenzione minuziosa del dettaglio è, piuttosto, un’esplosione di carica di ambiguità. Il suo desiderio è quello di accompagnare l’osservatore su quella soglia sottile che separa la realtà dalla finzione. Questa la raison d’être del suo ruolo autoriale. Del resto, Paolo Ventura è un “fotografo-impostore” che da sempre racconta storie dell’assurdo, consapevole del fatto che la fotografia riesce a imbrogliare i suoi spettatori in modo impareggiabile.
Denis Curti